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Impermanenza
Senza impermanenza, la vita non sarebbe possibile : un seme non potrebbe crescere, un fiore non potrebbe trasformarsi in un frutto un bambino non potrebbe diventare adulto.[read]
Anche la nostra personalità, il nostro io è solo un nome, che copre una moltitudine (un flusso) di elementi psicofisici in relazione tra loro – non limitati alla vita presente ma radicati in esperienze passate e proiettati in quelle future. L’individuo è una combinazione di forze od energie psico-fisiche, in continuo mutamento. Perchè in questo divenire senza inizio nè fine immaginiamo cose piuttosto che processi? Chiudiamo gli occhi davanti alla successione degli eventi: La vita non è una cosa, né uno stato, ma un continuo movimento e mutamento: nulla è ora lo stesso di come era un attimo fa.
Il nostro stesso “io” è un complesso di sensazioni, idee, pensieri, emozioni e in continua trasformazione ed evoluzione.
Secondo l’opinione corrente, la permanenza dà sicurezza, l’impermanenza no.
Pensiamo che cambiamento equivale a perdita e sofferenza : vogliamo disperatamente che tutto continui così com’è. In realtà, invece, l’unica cosa durevole è paradossalmente proprio l’impermanenza. E la nostra lotta per trattenere le cose così come oggi sono non solo è impossibile, ma – ironicamente – ci provoca proprio quella sofferenza che vogliamo evitare. L’errore sta nel fatto che – per essere felici – ci afferriamo a ciò che è per natura inafferrabile2. Invece di aggrapparci disperatamente alle cose e tenerle strette dovremmo imparare ad allentare la presa e a lasciar andare : In realtà, il mondo è come il susseguirsi dei fotogrammi di una pellicola cinematografica : non c’è nessuna sostanza che abbia una durata ; e gli elementi non mutano, ma scompaiono. Ne consegue la negazione del movimento : un elemento non può muoversi, poiché scompare non appena è apparso e quindi non c’è tempo perché possa muoversi. In effetti, quello che chiamiamo movimento è una serie di manifestazioni separate o lampeggiamenti che sorgono contiguamente l’uno all’altro, cioè apparizioni consecutive di nuovi elementi in nuovi posti. Tale divenire non esclude però l’impressione di una durata o continuità che – in realtà – non esiste.
E’ impossibile possedere le cose (o le situazioni) perché queste ci fuggono in virtù della transitorietà e dell’ impermanenza. E chi crede di riuscirci, si illude come colui che tenta di fermare il tempo spaccando l’orologio. [/read]
IMPERMANENZA E DINTORNI: Daniela Cristadoro intervista Ferruccio Ascari.
D.C. Volevo parlare un po’ con te di Impermanenza, l’installazione che hai realizzato nel 2013 per la mostra curata da Asilo Bianco al Museo Tornielli di Ameno e insieme del video che prende spunto da questo lavoro e che, a sua volta, fa parte di un progetto più ampio e complesso: alludo a Restless Matter, opera in progress che hai progettato per il web. Prima di farti delle domande più specifiche su questo lavoro vorrei fare un’osservazione di carattere generale sul progetto, sul pensiero che mi pare l’attraversi e sapere se la condividi. Per farmi capire sono obbligata a fare una premessa: ‘impermanenza’ oltre a essere il titolo di un tuo lavoro é anche una categoria, un concetto chiave della filosofia buddhista alla base della quale c’è la constatazione che ciò che costituisce ogni cosa esistente altro non è che è un insieme di elementi in relazione tra loro, transitori e soggetti ad un continuo cambiamento: tutto ciò che ha inizio, ha fine. Mi pare di poter dire che Restless Matter, il pensiero e la modalità creativa e di lavoro che attraversa l’intero progetto e, al suo interno, ogni singolo video che ne fa parte, sia nata sotto il segno dell’impermanenza. Vorrei sapere se sei d’accordo con questa interpretazione.
F.A. Non è necessario spingersi sino in estremo oriente per scoprire come l’impermanenza sia la natura vera di tutte le cose. Già si attribuisce al filosofo greco Eraclito, per restare nel nostro bacino culturale, l’avvertimento: ‘tutto scorre’, “non potresti entrare due volte nello stesso fiume” e d’altronde la riflessione sull’evanescenza delle cose e sulla morte è alla base di molto pensiero e mistica occidentali. So poco di buddismo, m’interesso invece da tempo della filosofia che sta a fondamento dello yoga, in ogni caso non credo che nel lavoro artistico debba necessariamente esservi un concetto che precede e una realizzazione che segue, mi piace di più pensare che arte sia un ‘pensar facendo’, un ‘fare pensando’. Un giorno in campagna guardo una catasta di legna e vi ‘vedo’ qualcosa che non avevo mai visto prima: non so ancora bene di che si tratta ma, per dar forma a quella prima intuizione, comincio a smontarla. Smontare una cosa per capirne il funzionamento è un’attitudine infantile che non ho mai perduto. Decido poi di rimontarla, ma, invece che su base quadrata, con i legni prima in fila per un verso, poi per il verso contrario, come da sempre si costruiscono le cataste, mi lascio guidare dall’idea di ‘triangolo’: comincio quindi ad accatastare i legni su base triangolare, base molto più precaria, ma che si rivela, via via accatastando, sempre più affascinante proprio per quella sua precarietà. Impermanenza è un’opera che nasce così, poi s’andrà precisando un pò per volta nei mesi successivi. Intendo dire che questo, come quasi tutti i miei lavori, non nasce da un concetto astratto, ma da un improvviso ‘vedere’ qualcosa di mai visto prima. L’idea era già nella forma/catasta, quella forma è come se stesse solo aspettando di essere ‘vista’ e di essere tras/formata per poter manifestare un aspetto nascosto della sua natura più intima.
D.C. L’installazione realizzata per il Museo Tornielli è fatta di tre architetture/torri realizzate con porzioni di rami, scortecciati e imbiancati. Chi guarda ha la sensazione di trovarsi davanti a qualcosa che, quasi per un miracolo della statica, o meglio in stupefacente contraddizione con essa, solo per un istante può stare in piedi: i pezzi di legno a terra dicono di un crollo precedente e di un inevitabile prossimo crollo. Cos’ancora hai voluto dire con questo lavoro?
F.A. Più che di una mia volontà di dire credo si tratti di una mia predisposizione all’ascolto, all’indagine, al portare alla luce ciò che si nasconde. Ogni forma, ogni materia custodisce un suo segreto. Interrogare una forma, tormentare un materiale, esasperare una tensione, portare una struttura al limite della sopportazione: questo faccio lavorando. Nel caso di Impermanenza è l’equilibrio che è portato al limite. Se c’è volontà di dire qualcosa, questo qualcosa è proprio in quel ‘essere al limite’. Al limite del crollo. Credo che l’intenzione non sia diversa da quella che spinge un funambolo a camminare su una corda tesa sul vuoto o – meno pericolosamente, ma non con diverso spirito – un bambino a fare un castello con le carte da gioco. La gratuità del gioco è cosa essenziale, significa la non sottomissione all’utile. Il gioco, come l’arte, è cosa seria proprio perché si sottrae all’utile. Il gioco non è utile, è indispensabile: sono due cose diverse. Qui la caduta, il crollo, la rovina sono indispensabili, altrimenti il gioco non potrebbe essere giocato. La caduta è insita, nonostante possa essere nascosta dalle apparenze, nell’equilibrio stesso, è il vero ‘rimosso’ del solido edificio che tutto vuol dimostrare, ma non la sua rovina. Esattamente il contrario di ciò che mostrano le torri di Impermanenza.
D.C. C’è in questo lavoro un qualche riferimento al mito della Torre di Babele?
F.A. Chissà? Lontana da me la pretesa di voler ‘toccare il cielo’ con una precaria catasta di legni, ma non posso d’altro canto essere responsabile delle interpretazioni altrui…
D.C. Le porzioni di rami scortecciati e imbiancati che costituiscono i materiali costruttivi delle tre torri ricordano in modo impressionante le ossa: ossa animali ormai levigate e ripulite dal tempo. Non ti nascondo che quando ho visto questo lavoro non ho potuto non pensare alle Cripte dei Capuccini, alle composizioni di ossa che tappezzano quelle cappelle, ma il tema, in verità, non mi pare qui quello del “memento mori” tipico della tradizione cattolica. Cosa ne pensi?
F.A. Penso che in Impermanenza il tema della morte non sia del tutto assente: lavorandovi, l’idea di ‘ossario’ ha in effetti preso progressivamente forma dando, in certo modo, consistenza ad antiche paure, a lontane fascinazioni. Quando ho cominciato ad avere tra le mani quei legni, il loro stato grezzo, i licheni che li ricoprivano, il loro stesso odore li avvertivo come elementi che, nonostante mi piacessero, tendevano a soverchiare qualcosa di essenziale di cui non ero ancora del tutto consapevole. Era come se quegli elementi necessitassero di un qualche processo di calcinazione: da qui il bianco che rivelerà con chiarezza la tendenza di quei legni a farsi sorta di ossa e, in secondo luogo, ad allontanarsi dal rischio di un certo ‘poverismo’ di maniera.[/read]
Impermanenza. Installazione ambientale, dimensioni variabili, Museo Tornielli, Ameno, 2014 [S0032]