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Materia Inquieta
Daniela Cristadoro
Le opere recenti di Ferruccio Ascari si palesano sempre più come esito di un radicale spostamento dello sguardo da una prospettiva di tipo antropocentrico a un’altra che tende al superamento di ogni gerarchia tra i vari piani di esistenza. Una prospettiva in cui decentrarsi significa riconoscere centralità a ogni forma di vita, guardare alla natura non come paesaggio o come sfondo della vicenda umana, ma come incessante produzione di forme di vita. Nell’intento conoscitivo che attraversa tutto il lavoro dell’artista, si avverte la meraviglia di fronte a quest’infinita generazione di forme, ognuna delle quali racchiude un senso che spesso rimane misterioso poiché pone domande piuttosto che offrire risposte.
L’allontanamento dalla visione antropocentrica non si accompagna a un atteggiamento nostalgico o a un sentimento di perdita: è l’esito della progressiva conquista di un altro modo di posizionarsi nel mondo, vissuto dall’artista come una liberazione, un allargamento d’orizzonte lungamente perseguito, frutto di un cammino di ricerca sul piano umano oltre che artistico su cui non poco ha influito lo studio del pensiero yogico e la sua pratica.
È questa progressiva consapevolezza della perdita del centro che costituisce la trama segreta e insieme il filo conduttore che collega concettualmente, pur nell’estrema varietà linguistica, tutto il lavoro di Ascari: dalle performance degli anni Settanta, al ciclo di affreschi strappati e riportati su tela degli anni Ottanta e Novanta, sino alle più recenti sculture, opere su carta e installazioni.
Elemento centrale nel suo lavoro è inoltre la consapevolezza della centralità della questione della forma all’interno del processo di creazione, qualunque siano lo statuto linguistico adottato, i materiali usati, la natura della relazione che ogni singola opera stabilisce con lo spazio. Questa consapevolezza, da non confondersi con uno sterile formalismo, pone il suo lavoro in controtendenza rispetto all’atteggiamento oggi prevalente che privilegia l’elemento discorsivo dell’opera rispetto a quello formale. Come diceva lo storico dell’arte Cesare Brandi, “l’essenza dell’arte va colpita nell’immagine, ossia nella realtà formale che individua e non nella sostanza conoscitiva che nell’immagine è rappresentata”. C’è qui un pensare all’invenzione della forma come a una nascita, alla fioritura di una possibilità impensata, all’apertura di uno spazio di libertà che è insieme ricerca di ciò che si nasconde sotto l’apparenza delle cose.
È in questo orizzonte che vanno collocate le opere di Ascari dell’ultimo decennio, che ruotano attorno a nuclei tematici quali la dialettica tra finito-infinito, ordine-disordine, simmetria-asimmetria, densità-rarefazione, vicinanza-lontananza e sono originate da una spinta conoscitiva di tipo fusionale nei confronti dell’oggetto della rappresentazione. Si può parlare per questo aspetto del suo lavoro di un’erotica dello sguardo, che si attua in un tendenziale superamento della consueta distinzione tra soggetto e oggetto, nel senso che lo sguardo è mosso da un impulso che tende a penetrare nell’oggetto della rappresentazione, a perdersi in esso per riceverne il dono della forma.
Il tema della dialettica tra finito e infinito è centrale in un ciclo di opere che si collocano tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del nuovo millennio: si tratta di una serie di grandi lavori su carta contrassegnati tutti da un medesimo, significativo titolo, Qualcosa le manca, presentati per la prima volta in una personale dell’artista presso il Museum der Stadt di Waiblingen, Germania, nel 2000. Qui il segno ottenuto col nerofumo su grandi fogli di carta dà origine a forme organiche che si dispongono lungo traiettorie curvilinee, attraversando lo spazio vuoto dei fogli disposti in registri sia verticali sia orizzontali. Il vuoto in cui questi elementi figurali s’iscrivono non è “negativo”: è uno spazio latente reso “attivo” dal segno denso che lo attraversa e lo definisce; come l’intervallo tra due suoni, è un fattore generativo sia sul piano temporale che spaziale. Gli elementi figurali sembrano svilupparsi sulla spinta di un’inarrestabile autogenerazione che la singola opera non riesce a contenere, tanto da proseguire nell’opera successiva in un movimento tendenzialmente infinito. All’origine di tale spinta generativa sembra esserci un desiderio che non trova appagamento, infinito come il sentimento d’insufficienza, di mancanza, che a esso si accompagna. L’opera si dà pertanto come frammento di un tutto che non è attingibile, che supera i limiti spazio-temporali.
“Mi interessa prendere le mosse da una cellula formale iniziale, da un nucleo generativo”, afferma Ascari. “Di questo nucleo generativo come di qualcosa che è uscito, chissà come, dalla notte dell’informe e che è venuto, in qualche modo, alla luce – mi interessa la vitalità, il suo desiderio di crescita, il potenziale espansivo. Non c’è qui nessun modello esterno, nessun riferimento a qualcosa di già esistente; e neppure mi rifaccio a una sorta di archetipo formale interiorizzato e poi riportato alla luce. Non si tratta di qualcosa che sta prima nella mia mente e in un secondo tempo viene rappresentato. L’intenzione che mi guida è quella di assecondare quella cellula formale iniziale nel suo processo di trasformazione. Si potrebbe dire che sono forme che vengono colte nel loro formarsi. Questo processo, una volta innescato, sembra rivelare una sua legge, un suo ritmo, sembra tendere verso qualcosa… Il mio lavoro consiste nell’essere dentro la tensione che io stesso ho provocato, nel consentirle di manifestarsi”.
Nel ciclo di lavori contrassegnati dal titolo L’ordine dura un istante, comprendente una serie di grandi carte bianche traforate e di guazzi, l’elemento generativo si intreccia con la ricerca di una forma che lo contenga, dandogli un ordine. Lo strumento usato in questo caso dall’artista è il bisturi: riprendendo un gioco tipico dell’infanzia, egli interviene su grandi fogli ripiegati a metà, ritagliando nella carta, con la precisione che solo la lama affilata garantisce, sequenze figurali che si sviluppano a partire da una “cellula formale iniziale” – come la definisce l’artista – che sembra essere assecondata nella sua volontà di espandersi. L’impressione di specularità che ne deriva è però solo apparente. A uno sguardo più attento si rivela come un sottile inganno: la simmetria delle due parti viene contraddetta da “cellule formali anomale” che rompono l’ordinato dispiegarsi delle sequenze figurali introducendo un elemento di disordine. L’inatteso si insinua nelle trame ordinate della simmetria dando origine a intrecci complessi e non prevedibili. Il rigore dell’ordine simmetrico, nella sua immutabilità, è superato da una vitalità che esso, letteralmente, non riesce a contenere. Qualcosa di simile accade nella serie di affreschi strappati e riportati su tela di questo medesimo periodo: un ciclo di opere accomunate dalla ripresa di una tecnica tradizionale, quella dell’affresco, che Ascari aveva già adoperato in alcuni lavori degli anni Ottanta in associazione con materiali come ferro e pietra. In queste opere più recenti, gli elementi figurali che attraversano le grandi campiture di colore rosso e vellutato ottenute con la tecnica dell’affresco, sembrano venire da un imprecisabile regno in bilico tra il vegetale, il minerale e l’animale. In realtà non appartengono a nessuno di essi: non rappresentano qualcosa, ma sono questo qualcosa. La mano dell’artista che consente loro di manifestarsi è il docile strumento di una volontà che si traduce in flussi d’energia. Un’energia che è perenne dialettica tra permanenza e mutamento, che procede per dinamismi in lotta contro il caos, alla ricerca di un ordine che si dà in alcune opere come tensione verso la simmetria, in altre come suo rovesciamento, in un movimento per sua natura infinito. Lo spazio che circonda e attraversa le forme organiche non è uno sfondo, ma come accadeva nel ciclo Qualcosa le manca – è fattore attivo e generativo da cui esse non possono essere disgiunte. Tanto che, a volte, s’inabissano nello spazio-colore al punto da divenirne quasi indistinguibili. Benché il risultato formale siano dei quadri monocromi, sarebbe un errore assimilare queste opere a esperienze di tipo minimalista con cui concettualmente non spartiscono nulla: a essere centrale è qui il rapporto dialettico tra la forma e lo spazio che si risolve in una pulsione fusionale, in un riassorbimento della ferita della “separatezza” che è la condizione stessa del processo d’individuazione.
In altre opere su carta di questo periodo, con un vertiginoso mutamento di prospettiva, lo sguardo dell’artista si volge verso l’interno della trama compositiva in un avvicinamento all’oggetto che tende ad abolire la distanza, quasi a confondersi con esso per conoscerne la struttura intima. Non si tratta più soltanto di “imparare a vedere” le cose nel loro essere intessute nella trama della natura, ma di sentirsi parte di questa stessa trama. È ciò che accade in Pittura per ciechi, serie di guazzi realizzati su fogli di vecchi manuali di storia naturale per ciechi in scrittura braille, o in opere come Bianco/Nero e Bianco/Rosso, dove l’accorciamento della distanza tra l’occhio e l’oggetto della rappresentazione produce effetti di distorsione, di sovrapposizione degli elementi figurali che compaiono sui singoli fogli scomponendone l’ordine: ognuno di essi si dà pertanto come un frammento di qualcosa di cui è andata perduta la visione d’insieme. Lo stesso vale per Apparente, opera costituita da trentasei lastre in vetro disposte su sei registri sovrapposti. Le sagome bianche che affiorano in alcuni di essi sono colte come in volo, bloccate per un attimo in una sorta di istantanea che ne restituisce solo un’immagine parziale. Come il titolo suggerisce nella sua accezione etimologica – apparente è ciò che appare, che si manifesta – si tratta di qualcosa che entra per una frazione di secondo nel nostro campo visivo, impressionando la retina, per poi scomparire sotto la spinta di un movimento inarrestabile.
La relazione dialettica tra ordine-disordine, espansione-riflusso, densità- rarefazione, così come la vitalità generativa della forma, sono elementi che si ritrovano nelle molte sculture in ferro o in terracotta realizzate dall’artista a partire dal 2006: Metameria, Come fosse in ascolto, Latte nero, Odradek, Insiemi instabili, Fiori, Vayu, Omphalos, La freccia che colpisce il bersaglio vola per sempre. Ma anche in lavori recentissimi come l’istallazione realizzata per il Museo Comunale d’Arte Moderna di Ascona, dal titolo Memoriale volubile. Tutte queste opere sono composte da una serie di elementi simili, ma non identici per forma e dimensioni, il cui numero e la cui disposizione variano anche a seconda del luogo in cui sono collocate. In tutte diversi, mostrando una flessibilità, una capacità di adattamento che è tutt’uno con l’imprescindibile relazione con lo spazio fa sì che esse si declinino in modi sempre moltiplicazione in un movimento che, senza intaccarne la singolarità, li unisce e li la volontà generativa che le attraversa. Gli elementi che le compongono tendono alla moltiplicazione in un movimento che, senza intaccarne la singolarità, li unisce e li coinvolge in una continua metamorfosi.
Sia Metameria, scultura in ferro costituita da ventitre elementi, che Come fosse in ascolto, composta da ventuno elementi in terracotta bianca, si dispongono su di un piano lungo un asse longitudinale, in ordine decrescente e simmetrico rispetto all’elemento centrale da cui si dipartono o, come afferma l’artista con una espressione mutuata dal linguaggio musicale, “secondo un ritmo di crescendo e diminuendo”. Entrambe ruotano attorno alla questione della simmetria e della sua rottura, alla dialettica tra l’ordine come principio di stabilità e il disordine come fattore generativo. Sia l’una che l’altra suggeriscono analogie con immaginarie strutture organiche, benché in realtà sia qui assente ogni intenzione di tipo mimetico: non si tratta di rappresentare – nel senso di ri- produrre – alcunché di esistente, ma di porre in essere forme che rivelano la loro comune appartenenza a un mondo organico immaginario. In Come fosse in ascolto si realizza un equilibrio tra le singole parti che ha un andamento quasi musicale: dalla nota grave dell’elemento mediano, al progressivo acutizzarsi, nelle due opposte direzioni, verso quelli terminali. Il riferimento al suono presente nel titolo è anche riconducibile alla forma degli elementi che compongono la scultura, che ricorda anomali padiglioni auricolari e suggerisce l’idea di un misterioso dispositivo per l’ascolto.
Latte nero è un’installazione ambientale composta da ottantatre elementi in terracotta bianca che ricordano per forma il seno femminile, un seno cavo però che rivela una voragine oscura. Simili, ma di diverse dimensioni, i singoli elementi si dispongono come in fuga lungo la parete, apparentemente senza un ordine predeterminato. L’opera si ispira nel titolo a una famosa poesia di Paul Celan che si apre con uno sconvolgente ossimoro: il latte simbolo di nutrimento e vita si rovescia nel suo contrario, nella sottrazione del cibo e quindi nella morte. Nell’opera di Ascari il contrasto si manifesta nell’opposizione tra la pienezza, il turgore della forma, e il nero vuoto che essa dischiude: un vuoto che è non solo sottrazione, ma vertiginosa attrazione verso l’infinito. Anche Odradek è composta da una quantità di elementi: piccoli, di terracotta rossa, ricordano qualcosa che non si saprebbe dire, forse una trottola, qualcosa che sembra comunque aver perso la sua funzione. Il titolo, non casualmente, riprende quello di un breve racconto di Kafka che riguarda un oggetto dimenticato di cui si dice che sia straordinariamente mobile, ma non si lasci prendere, la cui forma sembra insensata, ma nel suo genere conclusa. Come l’Odradek kafkiano, ciascun elemento di quest’installazione può rotolare producendo un suono sottile “come lo può emettere chi è senza polmoni”. Odradek, come Insiemi instabili, Fiori, Vayu, appartiene a un gruppo di lavori in cui la molteplicità degli elementi “in assenza di un ordine riconoscibile evidente – come dice l’autore – sembra rispondere a una pura esigenza di crescita; quasi seguissero un loro impulso segreto, si espandono là dove trovano minore resistenza”.
La forma le infinite, mutevoli forme in cui il vivente si manifesta – è frutto di questo impulso che non conosce quiete, mosso da una volontà generativa incontenibile che pare non avere altra finalità se non quella riproduttiva. I coni di terracotta nera che compongono Insiemi Instabili sono accostati tra loro a due a due, come attratti da una forza magnetica che li spinge ad accoppiarsi. Si espandono sulla superficie del pavimento in ordine sparso, secondo un movimento che muta ogni volta in relazione allo spazio che occupano. “Non esistono dati, ma solo eventi e movimenti… La realtà non è costituita da cose che essenzialmente sono e accidentalmente divengono – afferma l’artista a proposito di questi suoi lavori – ma da processi, ossia da un essenziale divenire… Le cose non sono nel tempo, ma sono tempo”. Un divenire che si snoda sotto i nostri occhi in Fiori, una colonia di oggetti ibridi, in continua trasformazione, che vengono colti e fissati per un istante all’interno di un processo di continua metamorfosi.
In Vayu, venti elementi di forma simile, ma di diversa misura, sono collocati a terra in ordine sparso. Il titolo dell’opera è una parola sanscrita traducibile con “vento”, “aria”, “corrente”. Si tratta di orci, di contenitori senza fondo che pertanto, paradossalmente, non possono contenere nulla. Vasi destinati a non essere riempiti, la cui forma evoca e al contempo nega la dialettica vuoto-pieno che caratterizza la forma e la funzione di ogni contenitore. Attraversati dall’aria, questi orci evocano il vuoto e insieme la sua irrappresentabilità.
Attorno all’idea di centro come origine, luogo da cui dipartono infinite direzioni, o come fuga verso un punto infinitesimale, ruotano la scultura in ferro Omphalos, una serie di disegni a inchiostro con il medesimo titolo e La freccia che colpisce il bersaglio vola per sempre, scultura in terracotta bianca i cui quattro elementi sono a loro volta costituiti da una serie di sottoelementi concentrici digradanti verso l’interno a formare una sorta di vortice visivo.
Omphalos è un termine appartenente al greco antico che vuol dire “ombelico”, ma anche “cordone ombelicale”, “centro della Terra”. L’omphalos è il centro del corpo umano, ma è anche, significativamente, una cicatrice che testimonia del momento in cui siamo stati separati dal corpo materno che ci ha ospitati e generati; esso è la traccia tangibile di una separazione, ma anche della conquista di una vita autonoma. II richiamo ai molti significati di questa parola è presente in due sculture, una in ferro e una in grafite, e nei disegni a esse correlati. Nelle sculture il movimento di espansione che si diparte dal centro trova, necessariamente, un suo limite nei confini dell’oggetto, mentre nei disegni le linee che si irradiano dal centro suggeriscono un movimento tendenzialmente infinito. Anche in questi lavori non è tanto il “naturale”, il vivente che viene rappresentato. Come sostiene l’artista in un suo scritto, si tratta piuttosto di “fare come la natura, come è tipico del processo alchemico. L’alchimista è colui che si propone non di ri-produrre in laboratorio un fenomeno naturale, ma di produrre processi di trasmutazione secondo i modi della natura, sintonizzandosi anima e corpo con il suo modo di procedere”. La freccia che colpisce il bersaglio vola per sempre stabilisce una relazione di natura dialettica con le opere precedenti: qui il centro non è generativo; i cerchi concentrici attraggono lo sguardo, lo risucchiano verso un punto interno infinitesimale, dando luogo a un vortice visivo. Questo punto infinitesimale non è pensato come il centro o l’estremo del mondo, come del resto non lo era in Omphalos. Si può invece dire che è proprio questo “vortice”, questo girare in un movimento ritmico di essere e non-essere, di visibile e invisibile che è proprio di tutte le cose, a essere pensato come senso estremo del mondo. La relazione tra questi lavori si manifesta dunque come tensione, come contesa tra due polarità: non squarcio, ma intensa intimità del reciproco appartenersi dei due contendenti.
Memoriale volubile, installazione site-specific realizzata per il Museo di Ascona, è composta da una serie di elementi in rete metallica e cemento che, sospesi nello spazio, prendono il volo lungo un piano inclinato virtuale. Secondo una processualità che è caratteristica di gran parte del lavoro dell’artista, quest’opera deriva da una precedente che ne costituisce l’origine e può, a sua volta, divenire matrice di lavori successivi. Ogni elemento che la compone è infatti lo sviluppo tridimensionale della “cellula formale” che costituiva il nucleo generativo del ciclo di opere su carta dal titolo L’ordine dura un istante. Questa procedura non si palesa all’occhio in modo immediato: è come se l’opera custodisse un seme segreto, nascosto, che contiene in sé tutte le potenzialità della forma che si dispiega poi allo sguardo. Come molte altre opere dell’artista, anche questa sembra obbedire a un principio interno di continua trasmutazione, quel medesimo principio che si ritrova nel mondo naturale e nelle sue manifestazioni. Le sculture e le installazioni di questo periodo sono affiancate da opere su carta, spesso di grandi dimensioni: si può parlare di una vicinanza, di una prossimità che si espone allo sguardo, in un ciclo di lavori intitolati Respiro. I grandi fogli di carta allineati su registri sovrapposti sono attraversati da fasci di linee sinuose che sfuggono verso i margini. Chi guarda è attratto dalla loro sottigliezza e insieme dalla loro evidenza, che fa ingannevolmente pensare a sottili filamenti, a capelli applicati sulla carta. Il segno è in realtà ottenuto con l’inchiostro, ma come spiega l’artista – tale risultato è possibile solo attraverso una particolare disposizione fisica e mentale: “Per produrre questo segno è necessario un gesto compiuto con un pennello speciale, a setole lunghe, intinto nell’inchiostro. L’inchiostro che le setole trattengono viene scaricato con un gesto ampio, fluido, continuo. È importante il respiro: l’espirazione accompagna tutto il tragitto del segno sulla carta e l’aria contenuta nei polmoni viene scaricata in sincronia con lo scaricarsi dell’inchiostro di cui le setole sono imbevute. Le linee che attraversano il foglio hanno un loro andamento. Quelle modulazioni possono essere assimilate a quelle di un sismografo: la punta del pennello registra uno stato interiore come il pennino del sismografo registra i movimenti tellurici o quello dell’encefalogramma l’attività cerebrale”. È il respiro, dunque, il suo ritmo, che determina il movimento fluido delle linee che attraversano i fogli.
È interessante osservare come alcune questioni presenti nel lavoro di Ascari riaffiorino a distanza di anni, quasi a riprendere il filo di un discorso che non si interrompe, ma come una vena sotterranea riemerge assumendo forme ogni volta diverse. È ciò che accade nel ciclo Corpi celesti, che comprende una serie di opere su carta del 2006 e un’installazione del 2012. Così come nella ripresa di un’installazione sonora del 1978, Vibractions, oggi riproposta in una nuova versione che tuttavia mantiene inalterato l’impianto concettuale della precedente. Il ciclo Corpi celesti nasce da una questione – la forza che tiene assieme le cose o le respinge – che è il nucleo concettuale di molti altri lavori dell’artista. Una questione che rimane aperta, assume ogni volta configurazioni diverse, ogni volta può essere reinterpretata in relazione al linguaggio e ai diversi materiali adottati. Nelle opere su carta, realizzate a nerofumo o curcuma, una forza centrifuga invisibile sottrae peso ai corpi che vagano nello spazio vuoto del foglio. Ancora una volta, il vuoto è uno spazio latente reso “attivo” da ciò che lo attraversa, è fattore generativo sia sul piano temporale che spaziale. Nell’installazione del 2012, il materiale impiegato è il filo a piombo, quello che i muratori usano per costruire un muro perfettamente perpendicolare rispetto alla superficie del pavimento: la punta dei pesi indica il centro della Terra e il filo che li tiene sospesi è l’evidenziazione dell’Axis Mundi. Sul pavimento ce ne sono alcuni in posizione rovesciata che puntano verso l’alto, in direzione opposta rispetto al centro della Terra. Il lavoro vuole rendere visibile l’energia, le forze gravitazionali attrattive-repulsive che tengono insieme il mondo, facendo si che i pianeti e i corpi celesti non collidano tra loro.
Vibractions è il titolo di un’installazione sonora-performance presentata per la prima volta a Milano nel febbraio del 1978. Opera esemplare nel contesto della ricerca di quegli anni, Vibractions vedeva indissolubilmente congiunti elementi visivi e materiali sonori, in un percorso analitico che partiva da una riflessione sulle categorie di spazio e tempo nell’arte. Paradossale assunto di questo lavoro era quello di misurare lo spazio architettonico attraverso il suono, o meglio, di trovare un suo equivalente sul piano sonoro. L’intero ambiente, percorso lungo le tre dimensioni da corde armoniche, si trasformava in uno “strumento musicale”. Durante la performance le corde armoniche venivano messe in vibrazione con archetti di violino, plettri, martelletti, eseguendo una partitura musicale desunta, attraverso proporzioni matematiche, dai rapporti volumetrici informanti l’ambiente. L’esecuzione della partitura permetteva di rivelare il suono dello spazio, le sue irripetibili qualità acustiche.
A trent’anni di distanza Ferruccio Ascari ha ripreso quel lavoro del 1978 in occasione dell’uscita per Die Schachtel, etichetta di musica contemporanea, di un vinile con la registrazione del materiale sonoro relativo a Vibractions. Il vinile è accompagnato da una riproduzione di Mano Armonica, opera coeva costituita da venticinque scatti della mano dell’artista le cui dita, ripiegate in diverse posture, sono supporto di una scrittura musicale che fu poi utilizzata come partitura durante la performance. Vibractions 2012, pur mantenendo l’impianto concettuale della versione del 1978, presenta tuttavia alcune significative variazioni. Le corde armoniche attraversano lo spazio non più secondo uno schema ortogonale, ma trasversalmente, divenendo dispositivo che consente di sospendere da terra dei vecchi mobili che fluttuano nell’aria.: sorta di architetture volanti sottratte alla forza di gravità, essi inventano uno spazio ulteriore rispetto all’ambiente in cui sono collocati: ciascuno risuona in diverso modo a seconda della forma, delle dimensioni, della qualità del legno, della tensione e della lunghezza delle corde armoniche cui è sospeso. L’intento dell’artista è quello di “rivelare la loro voce”, così come nella prima versione di Vibractions era quello di “suonare lo spazio”.
Anche in un’opera recente di Ascari, la scultura Cinque Stanze Sensibili, si assiste alla ripresa di questioni precedenti rimaste aperte, disponibili a essere declinate in forme e materiali diversi secondo una modalità caratteristica del suo lavoro. Cinque Stanze Sensibili è composta da cinque parallelepipedi in legno, cavi e a base quadrangolare, sovrapposti verticalmente l’uno sull’altro; su ogni lato si apre una piccola porta che permette di intravederne lo spazio interno. Ciascuno di essi allude ai cinque elementi: dalla terra, quello di base, all’etere, quello più alto. L’opera fa parte di un progetto cui l’artista lavora da anni e che comprende disegni, sculture, un’opera teatrale, un progetto architettonico. Quest’ultimo prevede la costruzione di cinque stanze di meditazione. Ogni stanza è dotata di un’unica finestra la cui forma geometrica (quadrato, falce di luna, triangolo, esagono, cerchio) corrisponde a ognuno dei cinque elementi. Il colore di ciascuna vetrata fa parte di una rosa di corrispondenze che a ciascuno di essi è correlata. Nell’ideazione di quest’opera, Ferruccio Ascari si è ispirato a una delle grandi tradizioni di pensiero dell’India antica, il Sāṃkhya, la filosofia che sta a fondamento dello Yoga. Si tratta di una visione del mondo che ha innervato tutto il suo lavoro degli ultimi decenni: “Le forme tendono a essere, sembrano spinte dal desiderio di venire alla luce”, afferma Ascari. “Non finisco mai di stupirmi di fronte al segreto che in ciascuna di esse è racchiuso. Che cosa vuole una forma assumendo la forma che assume? Ci sono fasi in cui l’impulso fondamentale la spinge a occupare uno spazio, a espandersi in ogni direzione possibile; in altre prevale un desiderio contrario di riassorbimento. È un movimento dialettico di accelerazione-decelerazione, espansione-riflusso, come accade con le maree, oppure con il respiro che si attua nel ritmo binario dell’inspirazione e dell’espirazione”. L’incessante trasmutazione, che è il principio fondamentale cui esse sembrano obbedire, non è che un aspetto di quell’energia che pervade il cosmo, in un perenne alternarsi di morte e rinascita.
In questa prospettiva il lavoro dell’artista si pone, implicitamente, in controtendenza rispetto all’omologazione, alla perdita della “differenza” che sembrano prevalere nel mondo contemporaneo con l’avanzare dell’anonimato e della solitudine dell’individuo, con la perdita di senso che si accompagna a una devastante e ininterrotta produzione di immagini che ossessivamente, con sottili armi persuasive, invitano a riprodurre ovunque i medesimi stili di vita. Un orizzonte in cui è possibile vedere il lavoro dell’artista come una forma di silenziosa, ma radicale opposizione allo spirito del tempo.