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Affreschi
Riportati
Su Tela
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LABIRINTI DEL SILENZIO
Marisa Vescovo
Un primo approfondito incontro con le opere di Ferruccio Ascari, mi ha convinto che il pensiero simbolico, con la sua radice sacra e la sua realizzazione storico-locale incarna, in questo caso, la storia, le opere degli uomini, le loro aspirazioni e le loro paure in immagini e sensi sovrapersonali. lo specchio del simbolo è un rivelatore caldo della realtà, è un filtro di tradizioni, ma anche di spazi dove viene bruciato il superfluo e arso di altro fuoco il desiderio che spinge a mettere in primo piano il proprio volto, la propria cronaca. In queste opere il simbolo è contemporaneamente metafora: in quanto parte che evoca il “tutto”, e “metamorfosi”, in quanto questa stessa parte è già avvento del tutto, e lo fa esplodere.
Con queste esplosioni si ristabilisce un profondo contatto con gli archetipi e si ritrovano le “figure” portanti interne alle opere. Osservando più da vicino i quadri, 0 i disegni, troviamo ricorrere in primo piano o tra gli arabeschi della trama cromatica, l’archetipo dell’albero. L’albero, simbolo del Centro del Mondo, è, in primo luogo, il punto di un “inizio assoluto” dove le energie latenti del sacro per la prima volta sono fuoriuscite là dove gli esseri soprannaturali, gli dei 0 il dio, crearono gli uomini e il mondo. In ultima istanza, ogni creazione avviene proprio in questo punto, che è la sorgente ultima della realtà.
Nel linguaggio simbolico del mito e della religione, questo punto è da indicarsi come: “l’ombelico del mondo”, “l’uovo divino”, il “seme nascosto” o la “radice delle radici”, e viene immaginato anche come un asse verticale, “l’asse cosmico” o “asse del mondo” che, situato al centro dell’universo, attraversa tre zone cosmiche: cielo, terra e mondo sotterraneo.
L’albero incorpora questo simbolismo serpentino e lunare perché muta la corteccia e perde le foglie, rinasce a primavera, crescendo ritmicamente in conformità del ciclo mensile della luna: crescente e calante.
Non c’è dubbio che le ascese al cielo e le discese nel mondo sotterraneo sono un aspetto dello sciamanismo, la religione di quei popoli la cui vita spirituale ruota attorno allo sciamano, una figura che riunisce in sè le caratteristiche del mistico, del visionario, dell’artista, del poeta e del mago. I cabalisti intesero invece la creazione come la manifestazione interiore di Dio e si servirono dell’immagine dell’albero capovolto per rappresentare quest’idea. Infatti come il seme contiene in potenza l’albero e l’albero contiene il seme, così il mondo nascosto di “dio” contiene l’intera creazione e la creazione, a sua volta, è la rivelazione del mondo nascosto di “dio”.
Anche Jung interpreta l’albero come “un simbolo di sé in sezione … il sé rappresentato come un processo crescita”. Nello studio del simbolismo alchemico Jung trovò la conferma della propria convinzione che l’immagine simbolica dell’albero nei sogni e nella fantasia assolvesse alla funzione di rafforzare nell’individuo la consapevolezza di sé. Jung aveva trovato infatti che, nella maggior parte dei casi, l’albero faceva la sua comparsa in sogno nei periodi critici dell’individuo, nel momento in cui egli viveva il bisogno pressante del sostegno di una immagine di crescita e integrazione. Paul Klee in una sua famosa lezione “Sull’arte moderna”, si servì della parabola dell’albero per descrivere il processo creativo che opera nell’artista: “l’artista moderno non distorce o deforma, deliberatamente, la sua esperienza della natura, della vita e dell’arte, bensì, come il tronco dell’albero, la trasforma naturalmente, perché nessuno si aspetta che un albero riproduca nella sua chioma esattamente le sue radici”. L’artista si limita “al suo posto nel tronco dell’albero a raccogliere ciò che emerge dal profondo e a trasmetterlo oltre. Non serve né comanda, bensì funge solo da intermediario. La sua posizione è umile: non è lui stesso lo splendore della chioma, quello splendore semplicemente lo attraversa”. Klee vide giustamente nella creatività umana la prosecuzione del processo cosmico.
Guardando i quadri di Ascari vediamo che questo discorso si allarga così da abbracciare una vasta rete di analogie. Analogie che come nei tappeti del Caucaso e persiani, schiudono universi da mille e una notte: è un mondo di forme geometriche-vegetali, animali e perfino umane, che nascono dall’esigenza di sottolineare l’umiltà del mondo sensibile paragonato al divino.
Ma ciò che ci importa innanzitutto stabilire è quello che potremmo chiamare il contenuto specifico di figuratività inerente gli elementi della figurazione: la linea, il colore. Dal dispiegarsi dell’energia interna dei segni, dal loro combinarsi e comporsi, risulta la forza di significazione, la capacità di esistenza dell’immagine. Dalla pratica dell’affresco a muro, e poi strappato e portato sulla tela, Ascari mette a punto i valori della materia e scopre il valore della linea-luce che nasce dall’energia implicita del segno e la costruttività dei colori e il “nuovo mondo delle tonalità”. I colori di Ascari si danno come colori psichici: sono il rosso scuro sangue, il marrone bruciato del mondo e del ferro arrugginito (che in taluni lavori compare realmente come elemento di metamorfosi della materia), l’estremo guizzare di una luce spezzata, e placata, in una blanda indifferenza, lo splendore notturno e freddo di un blu. Ciò che preme ad Ascari è di disegnare una dimensione mentale, di riconoscere i limiti di spazio e di tempo nei quali si avvera la propria esistenza, di ritessere la trama dell’universo par- tendo da quel punto che è il proprio io, con la sua volontà di fare e formare.
Così deve apparire il mondo a chi non si astragga e lo contempli dall’esterno, ma lo vede dal di dentro, secondo le prospettive infinite, divergenti, incrociate, rotanti, che si aprono, via via, lungo le curve apparentemente capricciose della parabola dell’esistenza, sempre eccentrica, periferica, irregolare, e tuttavia segretamente obbediente a certe leggi, e sempre impegnata in una necessità di sviluppo che deve trovare la sua via, aprirsi il suo spazio nella realtà.
Guardare questi quadri e come immergersi nelle fessure della coscienza, e scendere in quel chiaroscuro che si scorge vibrare sulla tela e sulla carta significa scendere nell’oscurità imprecisa che sottostà al linguaggio, al pensiero, alla vita individuale.
Se torniamo ancora ad osservare alcune tele di Ascari notiamo che l’arabesco lineare, talora graffito, ci ricorda architetture islamiche in cui la decorazione non cerca di “imitare il Creatore” nell’illusione di forme stabili ed eterne, “ma lo evoca attraverso la sua assenza in una veste fragile, incompiuta, precaria”. È così che sulle tele nascono figure intrecciate, archi a raggio variabile, quell’arabesco-labirinto che è essenzialmente una specie di negazione indefinita delle forme geometriche chiuse.
Schlegel era andato molto avanti pensando che l’arabesco fosse addirittura una forma originaria della fantasia umana: la manifestazione del caos da cui si originano le forme. Ancora una volta l’archetipo rappresenta, e personifica, determinati fatti della primitiva psiche oscura, delle vere invisibili radici della coscienza.
Altre tele abbandonano il proliferare delle tracce e dell’arabesco e ci fanno balenare epifanie cosmogoniche di materia, di temperie informale. Qui la materia incandescente, ed esplosa, prefigura un flusso indefinito e un quid spiritualmente simbolico, o insomma qualcosa che, nell’ambito di un’indefinibile ed incolmabile esigenza spirituale, “assume la funzione di”, assume la forma di un avventuroso paesaggio, di uno stato psichico-esistenziale dove l’imbocco e l’uscita, il primo termine e il secondo si trovano allo stesso livello.
Siamo comunque d’accordo con Giorgio Verzotti quando scrive che “un altro versante di operatività è toccato con dipinti che inglobano nella loro struttura superfici metalliche. In questo caso la composizione viene costruita in insiemi calibrati di materiali eterogenei, artistici e non, tradizionali e non. Il progetto verte su regole di euritmia che, come nel caso di Burri, e da Burri in poi di molti, verte sul porre accordo nel discordante, tende ad un assetto squisito dell’opera, ad una sua aulica nominazione. Le tele e i metalli sono giustapposti, come corpi non estranei l’uno all’altro, ma neanche del tutto familiarizzabili; stanno gli uni accanto agli altri scambiandosi reciprocità e attestando differenze”.
Il filo conduttore che si dipana lungo tutto l’excursus artistico di Ascari è quello della ricerca di una certa qualità; è nella ricerca della qualità, cioè della propria assoluta autenticità che l’artista (direbbe Kierkegaard) vuole disperatamente essere se stesso, e sappiamo altrettanto bene che senza “segni” non c’è Io, non c’è il suo rapporto col mondo e, dunque, l’instaurazione della sua identità individuale.
Ascari è uno di quegli artisti che hanno bisogno, oggi più che mai, di riconoscere l’enigma delle cose che sono davanti a loro, il che vuol dire avere anche una nuova percezione delle cose, e queste cose ormai si possono recepire se si arriva ad “un tempo rallentato dell’ascolto”, così che le cose e le forme usate per una vita si rimettono in movimento come “nuove”, restituite a se stesse; attraverso la cura dell’artista divengono una parte della sua interiorità, infatti nel lavoro si torna ad avvertire la presenza invisibile della natura come l’alito di un respiro, o di un vento leggero, e la poesia delle cose semplici ed elementari apre la porta al silenzio. Nel silenzio e nell’ascolto le cose si accendono dei loro segni sensoriali e allora noi le comprendiamo di più e, mentre le comprendiamo, sentiamo presenti i rapporti che intercorrono tra di esse.
Questo atteggiamento di reverenza verso il silenzio, la meditazione, fa si che nell’immagine proposta da Ascari si compia il trapasso dalle forme inferiori le tradizioni, o le memorie, che impediscono la libertà – alle forme superiori, in cui la libertà si attua nel suo volo più alto. Ogni momento significativo continua così a vivere attraverso echi e ripercussioni che si diffondono intorno come cerchi i quali si allargano nell’acqua dopo un tonfo.
La visione cosmologica che si dispiega nel lavoro di Ascari non fornisce la chiave dell’interpretazione simbolica o semantica delle immagini e dei segni della sua pittura, spiega piuttosto come ognuna di quelle immagini, ognuno di quei segni, contenga una verità che ciascuno leggerà secondo la propria esperienza, inserirà nel ritmo della propria esistenza, eppure conserverà per tutti lo stesso valore di verità. E queste tele vivono la verità di equilibri formali sospesi, eppure ineccepibili, animati da una vitalità magica e silenziosa, e stati sensitivi vagamente ambigui, come se potessero da un momento all’altro rientrare e dissolversi in quello spazio che non occupano, ma che dichiarano con stati tonali, luci, splendori segreti, che si muovono verso l’alto.
I neoplatonici avevano messo a punto una dottrina della luce e del colore, simile a quella di Goethe, che aveva un carattere sostanzialmente scientifico-spirituale e quasi per nulla fisico. Ascari, platonicamente, esalta il bene della vista come il bene più prezioso dell’uomo in quanto nulla di ciò che possiamo dire, o dipingere, intorno all’universo potrebbe essere detto, o dipinto, se non avessimo visto le stelle, il sole, il cielo.
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Senza Titolo. Affresco riportato su tela, 250×250 cm, 1993 [A0058]
Senza Titolo. Affresco riportato su tela, 250×254 cm, 1993 [A0203]